Di Antonio Floriani *
Appare ancora sottovalutato e spesso ignorato il rapporto tra consumo di sostanze ed insorgenza di problematiche psicologiche o disturbi psichiatrici. La comunità scientifica si è infatti maggiormente concentrata, da alcuni anni, a dibattere sul rapporto di causalità tra le due condizioni (uso di droghe e malattia mentale) tralasciando, in parte, la divulgazione di quanto sia frequente questa realtà.
La condizione di copresenza nello stesso soggetto dell’uso o della dipendenza da sostanze e la compromissione della sfera psichica viene denominata comorbidità psichiatrica o doppia diagnosi. Tale termine si è affermato in campo clinico tra gli anni ’90 del secolo scorso e i primi anni del 2000 quando gli addetti ai lavori (medici, psicologi, infermieri, educatori, operatori dei servizi) si sono trovati sempre più frequentemente ad aver a che fare con pazienti che presentano contemporaneamente il problema dell’uso di droghe e una sintomatologia psichiatrica.
Al di là delle varie teorie eziologiche sul fenomeno che cercano di spiegarne i nessi di causalità (ovvero, se sia l’uso di sostanze a provocare la deriva psichiatrica, o non sia piuttosto una latente predisposizione psicopatologica a indurre il consumo di sostanze; della serie: “è nato prima l’uovo o la gallina?”) rimane evidente l’elevata frequenza dell’associazione tra consumo di sostanze psicotrope in grado, quindi, di determinare effetti sul Sistema Nervoso e disturbi mentali.
La popolazione dedita all’uso di sostanze – e non necessariamente tossicodipendente – è estremamente eterogenea ed ogni forma di generalizzazione rischia di far perdere obiettività e quindi scientificità a qualsiasi trattazione in merito. Va infatti considerato l’aspetto multifattoriale che caratterizza il fenomeno e va tenuto presente che esistono consumatori occasionali ed abituali, dediti all’uso di una o più sostanze (policonsumatori), con modalità di assunzione, dosaggi e motivazioni assai differenti.
È esperienza comune degli operatori delle dipendenze sentir raccontare, durante le interviste anamnestiche ai propri pazienti, le storie più diverse su come la persona sia entrata in relazione con l’una o con l’altra sostanza, sugli effetti derivati o ricercati, nonché sulla capacità e sulla volontà di limitarne il consumo (uso sporadico, continuativo o dipendenza).
Certo è che non esistono droghe sicure, non solo per il potenziale intrinseco, proprio di ciascuna droga, di “sostanza tossica per l’uomo”, ma anche per via della soggettività nell’interazione sostanza-individuo, assai mutevole da persona a persona, da momento a momento, da condizione a condizione, con variabili non prevedibili (vulnerabilità personale, predisposizione, patologia latente, ecc.). A conferma della non-prevedibilità circa le conseguenze dell’uso di qualsiasi sostanza classificata come droga, si pensi ai bad-trip a cui possono andare incontro i consumatori di acidi e di ecstasy; agli effetti devastanti, in alcuni casi mortali, a cui sono esposti gli utilizzatori delle droghe dello sballo, effetti che a volte sopravvengono in chi ne fa uso da molto tempo, a volte in occasione della prima sperimentazione; alle manifestazioni psicotiche acute, ai flash-back ricorrenti, agli incubi terrifici, agli episodi di depersonalizzazione e ai disturbi dissociativi – a volte ma non sempre presenti – nei consumatori di cocaina e di sostanze stimolanti, per non citare anche qui il rischio di morte (per overdose o per danno cumulativo da uso cronico).
Tra le sostanze psicoattive più sottovalutate rispetto ai danni che possono causare a breve, ma soprattutto a medio e lungo termine, vanno annoverate in primis l’alcol (molte persone manifestano stupore quando lo si menziona tra le sostanze in grado di provocare danni), seguito dalla cannabis (hashish, marijuana e i derivati sintetici di queste), dai catinoni e dalle legal highs vendute negli smart-shop, spesso on-line.
Se è vero che alcune droghe sono considerate, tradizionalemnte e in modo diffuso, “obiettivamente pericolose” (si pensi a eroina, crack, acidi, ecstasy, ecc.), l’osservazione degli ultimi anni e numerosi studi dimostrano come siano proprio le sostanze più sottovalutate (e quindi più diffuse) quelle responsabili di importanti danni per l’uomo. Le conseguenze si possono manifestare, in tempi, modalità e gravità differenti, a più livelli: a livello psicologico (difficoltà di adattamento, di relazione, aggressività, ecc.), a livello neurobiologico (con, tra l’altro, la perdita di materia grigia, danni alla materia bianca e conseguente compromissione delle funzioni cognitive e motorie), a livello psichiatrico, dai “semplici” disturbi d’ansia e dell’umore, alle fobie, alle manifestazioni ossessivo-compulsive, fino all’instaurarsi di vere e proprie psicosi, spesso irreversibili.
La motivazione dell’incremento di doppie diagnosi a partire dagli ultimi anni del secolo scorso, è attribuibile a molti fattori: innanzitutto il prevalere di alcune sostanze (droghe sintetiche e cocaina) rispetto alla più tradizionale eroina. Infatti, se l’eroina è stata la droga che ha connotato il passato per gli effetti devastanti in termini di morti per overdose, malattie infettive (epatiti virali e HIV) e per il degrado sociale e familiare a cui andavano incontro gli eroinomani, sono sicuramente altre le sostanze maggiormente devastanti per la psiche, in grado di provocare danni gravissimi, spesso irreversibili, alle strutture encefaliche: la cocaina, il crack, l’ecstasy ed i suoi simili (ice, shaboo, cristal, …), gli allucinogeni, i catinoni, la ketamina, il PCP, le piperazine (GHB, GBL, …), i cannabinoidi (specialmente quelli sintetici – ma non solo – quali spice, n-joy, JWH-018, skunk, k2, haze, …) e le sintetiche più recentemente tabellate (mefedrone, MXE, …).
Molti lavori scientifici hanno evidenziato come l’assunzione prolungata di alcol e l’uso continuativo di cannabis determinino danni alle strutture nervose, danni che in qualche caso diventano permanenti, come nella Sindrome di Wernicke-Korsakoff o nella demenza correlata all’alcol che colpisce soggetti molto giovani. Lo studio di alcuni ricercatori australiani (Hermens D. Scott E. et al., Frequent alcohol, nicotine, or cannabis use is common in young persons presenting for mental healthcare: a cross sectional study. BMJ Open-2012) ha confermato l’alta frequenza del nesso causale tra l’insorgenza di disturbi mentali e l’uso di droghe e alcol. Nello specifico, sono proprio gli adolescenti che usano sostanze (alcol, cannabis e tabacco) a correre il maggior rischio di patologie psichiatriche con elevata probabilità di sviluppare gravi disturbi dell’umore (patologia bipolare) o psicosi (schizofrenia). Sempre secondo questi autori, nei pazienti affetti da disagio psicologico o con diagnosi psichiatrica, il consumo di sostanze può contribuire significativamente a peggiorare la sintomatologia, così come l’astensione dall’uso è in grado, in molti casi, di indurre un recupero, almeno parziale, dei danni provocati (Alcohol-related dementia: an update of the evidence; Alzheimer’s Research & Therapy 2013).
L’incremento di problematiche psicologiche e di disturbi psichiatrici associato al consumo continuativo e contemporaneo di alcol e cannabis è correlato alle nuove modalità d’assunzione (binge-drinking e fuori pasto), alle diverse qualità di sostanze circolanti (cannabinoidi sintetici, semisintetici oppure naturali ma ad alta concentrazione di principio attivo), oltre alla maggiore diffusione delle sostanze e alla sempre più precoce età di inizio. Ciò è attribuibile al processo di normalizzazione a cui sono andate incontro sostanze come l’alcol, la cannabis e, in buona parte, la cocaina per via della loro diffusione capillare.
L’immagine associata all’eroinomane degli ultimi anni dello scorso secolo, ha disincentivato il ricorso all’eroina – per lo meno l’assunzione attraverso la via endovenosa – favorendo la diffusione delle altre droghe. Tra queste le nuove qualità di cannabis “OGM”, ovvero transgeniche, come la supermarijuana e lo skunk, oppure i cannabinoidi sintetici. Queste varietà, diffusamente spacciate, hanno una concentrazione di THC, (ovvero tetraidrocannabinolo, principio attivo della cannabis responsabile degli effetti ricercati dai suoi consumatori) da 4 a 100 volte superiore rispetto a quello contenuto nella pianta di cannabis tradizionale (uno dei motivi per cui è universalmente decaduta la distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti).
Come dimostrato dai più recenti studi, anche per mezzo di TAC e PET (S. Geibprasert, M. Gallucci; T. Kringsc, 2010. Addictive Illegal Drugs: Structural Neuroimaging. American Journal of Neuroradiology) il consumo della cannabis attualmente rinvenibile sul mercato (a medio-alto contenuto in THC) determina seri danni al tessuto cerebrale, predisponendo l’encefalo a un calo ponderale degenerativo continuo, oltre che una progressiva e ingravescente perdita funzionale. Ad aggravare questa situazione vi è la ridotta percentuale, nelle qualità di cannabis sopra citate, di cannabidiolo (altro principio attivo contenuto nella pianta di cannabis, e pertanto non presente nei cannabinoidi sintetici), sostanza che, diversamente dal tetraidrocannabinolo, ha proprietà neuroprotettive (è questa la molecola utilizzata nella sperimentazione di alcuni farmaci derivati della cannabis).
In ultimo, è da annoverare come fattore predisponente all’uso di sostanze quello legato alla frequente condizione di disagio psicologico, spesso mascherato, che stanno vivendo – già da alcuni anni – le generazioni in età scolare. Non è raro sentire gli adolescenti (n.d.a.: adolescenza = età della sperimentazione) affermare che provare le droghe è una realtà ineluttabile, una necessità, per una serie di motivazioni che vanno dal “lo fanno tutti i miei coetanei, sarebbe strano se io non lo facessi” (processo di normalizzazione), al più classico “voglio sentire cosa si prova“.
Molti studi finalizzati alla prevenzione dell’uso di droghe hanno accertato che la prima strategia per non diventare consumatori di sostanze, consiste nell’evitarne la sperimentazione o comunque nel ritardarne il più possibile l’età di inizio (la scoperta dell’acqua calda, qualcuno penserà). Il concetto è molto semplice, di certa efficacia, ma in realtà di difficile applicazione – quanto meno su larga scala – se pensato per una generazione – quella dei giovani e giovanissimi – che nutre poca fiducia (e molta rabbia!) nei confronti del mondo degli adulti, visti come responsabili (o più spesso colpevoli) per non aver preservato per i propri figli, un po’ di quel benessere (psicologico, prima che materiale) di cui loro hanno goduto; adulti, ovvero figure di riferimento che, viste le condizioni del momento storico-sociale-politico attuale, hanno perso molto credito agli occhi delle future generazioni e che per tali ragioni, ogni loro affermazione in merito a cosa “è giusto” o “è sbagliato fare“, assume spesso per i giovani un significato di disarmante incoerenza con il rischio di un altrettanto disarmante effetto boomerang.
* Antonio Floriani è medico psicoterapeuta, criminologo, Direttore del Centro LiberaMente di Genova. Esperto in dipendenze e comportamenti d’abuso, lavora da molti anni, a diversi livelli, nel settore. Per informazioni o per fissare un appuntamento, contattate il Centro LiberaMente ai recapiti che trovate cliccando qui o scrivete all’indirizzo antonio.floriani@centroliberamente.it