FATTORI ETIOLOGICI DELLA DOPPIA DIAGNOSI
Un primo tentativo di classificazione rispetto alla problematica della doppia diagnosi viene proposto nel 1993 da First e Gladis; essi individuano tre classi di pazienti così distinte:
1) pazienti con disturbo psichiatrico primario e dipendenza secondaria;
2) pazienti con tossicomania primaria e disturbi psichiatrici secondari;
3) pazienti con disturbi psichiatrici e tossicodipendenza e entrambi primari.
Questa classificazione mette in luce uno dei più controversi e dibattuti quesiti sul tema della doppia diagnosi, vale a dire sulla causa, primaria o secondaria, della tossicodipendenza rispetto alla patologia psichiatrica. Il fattori coinvolti si situano, in particolare, sui tre livelli tradizionalmente individuati: quello biologico, quello psicologico e quello sociale.
La ricerca della patologia primaria è spesso priva di risultati certi, ma può comunque risultare utile ai fini diagnostici e del trattamento. L’assunzione di sostanze può essere concomitante, causa o conseguenza di sintomi psicopatologici più o meno gravi, associati alla compromissione del funzionamento sociale, famigliare, scolastico o lavorativo. A livello psicosociale l’influenza di eventi di vita altamente traumatizzanti sembra dimostrata dalla significativa presenza, nella storia di molti pazienti tossicomani, di eventi drammatici, come conflitti cronici tra genitori con eventuali separazioni, abusi sessuali e maltrattamenti, abbandoni precoci, perdita di un genitore e lutti. Dall’esperienza con questi pazienti, l’uso di sostanze sembra essere, nella maggior parte dei casi, conseguente al disturbo psichiatrico.
Esistono pazienti in cui la gravità della sintomatologia permette un facile inquadramento del disturbo psichiatrico come primario (la maggior parte dei casi di schizofrenia ed altre psicosi). In altri casi il disturbo primario è di più difficile individuazione (come ad esempio nei disturbi di personalità). Laddove il disturbo psichiatrico sia primario rispetto all’uso di droghe, i soggetti portatori di doppia diagnosi assumono sostanze a scopo autoterapico per alleviare la sofferenza psichica causata dalla patologia psichiatrica; le sostanze compensano i deficit nell’organizzazione difensiva dell’Io, rappresentano un sostegno all’identità precaria del soggetto, garantiscono una certa modulazione affettiva, favoriscono la fuga-evitamento dei conflitti e facilitano l’espressione delle proprie capacità e l’inserimento sociale. Ci sono anche pazienti con disturbo da uso di sostanze primario che sviluppano sintomi psichiatrici secondari durante l’intossicazione o l’astinenza; infatti l’uso di sostanze può causare la comparsa di una sintomatologia psichiatrica del tutto simile ad una psicopatologia primaria. Le sostanze, con i loro effetti acuti e cronici, sono in grado di esacerbare i sintomi psicopatologici e contribuiscono a mantenere la resistenza alla terapia.
Nella schizofrenia la tossicodipendenza può essere letta come autoterapia psicofarmacologica, volta a contrastare tanto la sintomatologia negativa quanto quella positiva, i deficit cognitivi, la perdita dei confini dell’io, i sentimenti depressivi conseguenti alle perdite e ai crolli propri della schizofrenia, la tensione nella confusione conflittuale propria dei sistemi famigliari a transazione schizofrenica.
Nei disturbi dell’umore, soprattutto nei pazienti bipolari e nei pazienti depressi e ansiosi, le sostanze -in primis l’eroina e l’alcool- sembrano svolgere questa funzione autoterapeutica. Sebbene la sensazione soggettiva di chi assume le sostanze sia, soprattutto in un primo tempo, quella di un lenimento non solo della depressione ma anche di tutti i processi concomitanti -confusione, rabbia, tensione, angoscia, vergogna, colpa, ecc.-, l’uso di droga peggiora l’intero quadro clinico. Se nelle forme depressive l’uso di droghe oltre ad aggravare di per sé la patologia affettiva, innalza fortemente il rischio di suicidio, nei quadri misti bipolari ciò porta ad un peggioramento della mania il cui decorso appare assolutamente meno favorevole. È frequentissimo in pazienti con sintomatologia bipolare l’uso alterno o spesso concomitante di eroina e cocaina, oppiacei e stimolanti, percepiti soggettivamente da tali pazienti come in grado di mantenere il tono dell’umore adeguatamente euforico, cosa che questi pazienti vorrebbero raggiungere a tutti i costi.
Esiste una vasta gamma di situazioni inquadrabili nell’ambito della doppia diagnosi di evidente interesse clinico anche se non rispondente agli stretti criteri diagnostici richiesti dai sistemi standardizzati. Una situazione è quella di abuso/dipendenza da sostanze in concomitanza con una diagnosi di disturbo di personalità (pertanto in Asse II del DSM). In senso stretto questo tipo di comorbidità non rientrerebbe nei criteri formali per la doppia diagnosi, essendo essa presa in considerazione solo in caso di patologie in Asse I. D’altra parte, oggi è aperto il dibattito sul significato clinico dei disturbi di personalità, da alcuni considerati forme attenuate di corrispondenti disturbi sindromici di Asse I. Non vi è dubbio che, nell’ambito di ogni disturbo di personalità, la presenza o meno di abuso/dipendenza da sostanze, attuale o pregressa, può comportare notevoli differenze a livello dell’intervento terapeutico (v. oltre).
Nel dibattito sulla doppia diagnosi si vuole differenziare il tossicomane “puro”, senza sofferenza e senza psicopatologia, da quello con comorbidità, complesso e difficile perché portatore di disturbo psichiatrico. Non esistono, però, tossicomani “puri”: ogni dipendente ha sempre una specifica sofferenza e un modo di difendersene ed elaborarla. Il tossicomane può non avere una forma psicopatologica riconoscibile, ma avrà comunque sempre qualche tipo di sofferenza. I tossicomani traggono dei vantaggi psichici dalle sostanze, in ordine al tentativo -inizialmente riuscito- di non sentire o comunque ridurre tensione, ansia, dolore. Queste osservazioni sostengono la teoria dell’autoterapia. La scelta di tali sostanze sarebbe elettiva, in quanto volta a curare specifici sintomi psichici dolorosi. Le sostanze permetterebbero un adattamento positivo soprattutto sul breve termine, compensando il deficit e modulando la conflittualità; sul lungo periodo, però, questo adattamento non sarebbe più sufficiente. Uno dei problemi posti dalla doppia diagnosi è proprio quello della potenziale azione patoplastica delle sostanze assunte nella comorbidità. In una corretta prospettiva di diagnosi differenziale, a livello clinico si tenta di distinguere, all’interno di un panorama sintomatologico complesso, quali sintomi siano dovuti all’assunzione di sostanze e quali sintomi siano invece una conseguenza del disturbo psichiatrico concomitante. A questo livello, tuttavia, gli studi di psicopatologia oggi disponibili sono ancora carenti.
Nella dipendenza da eroina viene sempre riscontrata una situazione di dolore psichico. L’eroina ha infatti la capacità di rispondere selettivamente a ogni tipo di dolore, acuto e cronico, organico e non, strutturato, fluttuante e svincolato. Ansia, tensione, angoscia, lutto, depressione e ogni genere di vuoto trovano nell’eroina il farmaco ideale. L’eroina agisce sempre e in ogni caso con una funzione antidepressiva, anti-aggressività, anti-confusione, moderando le onde della maniacalità e colmando i vuoti depressivi. Il circolo “sofferenza-eroina-sofferenza” si chiuderà però girando su se stesso, rendendo sempre più vera la realtà che contribuisce a creare.
Al contrario, le sostanze stimolanti -quali la cocaina, le anfetamine e molte droghe sintetiche- si caratterizzano per gli effetti potenzianti la comunicazione col mondo (empatogeni), l’attività, l’espressione e la realizzazione del sé (entactogeni). Le sostanze espansive sono energizzanti, euforizzanti. Il rischio di disturbi mentali è massimo per la cocaina, così come è elevato il rischio di un livello alto di intossicazione cronica. La cocaina è la sostanza perfetta per i soggetti maniacali: la maniacalità si genera sulla base di un confronto perdente con il mondo. Generalmente è possibile ricostruire nella storia delle persone con sintomatologia maniacale o mista depressivo-maniacale, la sconfitta subita da parte di un antagonista interiorizzato che molte volte corrisponde a una persona di eccezionale rilievo per il soggetto (v. il rapporto paterno nel caso clinico che segue): può essere un genitore, un fratello, un compagno o una compagna, ma anche un’immagine ideale da raggiungere a tutti i costi, un ostacolo insormontabile, un traguardo, un compito, una prova. Mentre si può senz’altro affermare che chi usa eroina lo fa per risolvere un malessere -e una sofferenza nei casi gravi di vera e propria dipendenza-, la cocaina è usata per raggiungere uno stato di sé nient’affatto alternativo a uno di sofferenza. La cocaina è un mezzo per ottenere stati di sé valorizzati come positivi e che consentano al soggetto di sperimentarsi in modi nuovi, più creativi, più potenti e sicuri. L’uso di cocaina garantisce la possibilità di arrivare a una potenza sicura e a una combattività vittoriosa garantita da un’immagine ideale di sé. Queste sono le ragioni per cui fanno così spesso uso di cocaina i pazienti bipolari per ascendere alla fase piena della maniacalità caratterizzata da un quadro di disinibizione euforica, iperattività psicomotoria, azioni ripetitive compulsive, comportamenti a rischio ed inadeguati. Ne conseguono agitazione psicomotoria, aggressività, paranoia, crisi depressive, l’estremizzazione di tratti o di veri e propri disturbi di personalità. La cocaina aggrava la tendenza all’aggressività e all’impulsività, l’egocentrismo, l’istrionismo, il narcisismo e la ideazione paranoidea di soggetti già caratterizzati da tratti di personalità abnormi piuttosto che affetti da veri propri disturbi di personalità. Ci può inoltre essere un quadro di delirium caratterizzato da intensa disforia, ansia, irritabilità, possibili attacchi di panico e paura di morte imminente; questa sindrome può arrivare alla psicosi con disorientamento e rischi gravissimi il cui trattamento risulta essere assai problematico. La falsità delle conquiste, lo spostamento del soggetto da un piano ipomaniacale, verso un eccesso e un estremismo del sé, generano l’incapacità di affrontare correttamente le radici della propria patologia di base. Si realizza così un progressivo fallimento, perché la persona non si confronta con i suoi stessi problemi, che finisce col riprodurre incessantemente. Aumentano conseguentemente la depressione, l’insoddisfazione, l’insicurezza, a fronte di un abbassamento della qualità di vita. Aumenta inoltre la probabilità di praticare comportamenti a rischio, sia sessuali che non (guida spericolata, spese inadeguate, gioco d’azzardo, reati, ecc.), le cui conseguenze sono generalmente disastrose.
Per quanto concerne l’uso di cannabis, meno di un decimo dei consumatori sarebbe a rischio di sviluppare una dipendenza, ma in coloro che la sviluppano la presenza di comorbidità psichiatrica è molto elevata. In alcuni soggetti il ricorso ai derivati della cannabis facilita ed estremizza i processi di ritiro psichico e sociale. Da qui possono svilupparsi depressione e la cosiddetta sindrome amotivazionale, in cui il soggetto è apatico, con scarsi desideri e pulsioni, perdita della progettualità e degli interessi. Studi prospettici molto validi portano a considerare la cannabis un fattore di rischio da tenere in conto soprattutto per i soggetti più vulnerabili. Tali studi mostrano in alcuni casi la manifestazione di sintomi psichiatrici specifici, come un esordio psicotico, una crisi depressiva intensa, un attacco di panico, fenomeni di depersonalizzazione, di isolamento e di fuga dal contatto sociale. È stata infatti dimostrata l’influenza dell’uso cronico di cannabis, soprattutto ad altri dosaggi, con l’esplodere di una sintomatologia psicotica. Studi epidemiologici sulla popolazione di pazienti schizofrenici in carico ai servizi, hanno dimostrato che una larga parte, fino al 50% di questi pazienti cronici gravi, assumeva varie sostanze in grado di peggiorare tutti gli indici clinici prognostici, la compliance e l’esito del trattamento, producendo maggiori tassi di riospedalizzazione, riacutizzazione della sintomatologia, drop out, atti antisociali, degrado sociale e un drammatico abbassamento della qualità della vita.
L’alcool ha caratteristiche e funzioni peculiari: se ad alti dosaggi è un depressore del funzionamento del Sistema Nervoso Centrale, a dosi medio-basse diventa un disinibente, agendo come antiansia e antidepressivo. In condizioni di dipendenza, l’alcool agisce da potente psicofarmaco in grado di annullare gli stati negativi che la persona sente dentro di sé, o addirittura è capace di far raggiungere uno stato positivo: l’alcool si comporta così sia da sedativo che da stimolante, da antidepressivo, da espansivo, da produttore di eccitamento maniacale.
Il ricorso alle cosiddette nuove droghe (ecstasy e suoi simili) da parte di molti giovanissimi, ha avuto come conseguenza la diversificazione delle modalità d’uso delle sostanze psicotrope ed ha caratterizzato il fenomeno delle poliassunzioni. Queste sostanze consentono di praticare una cosmesi psicofarmacologica, con vere e proprie transitorie operazioni plastiche della mente. Le nuove droghe segnano, così, l’avvento di un importante mutamento antropologico. Solo una minima parte dei suoi consumatori è, quanto meno inizialmente, clinico-psichiatrica. Queste sostanze sono sempre più vissute come regolatori, catalizzatori, modulatori dell’esistenza normale. Presentano minore visibilità e dunque suscitano minore allarme sociale. Veicolano un’immagine dolce, pulita e tecnologica del consumo, in linea con l’esperienza dell’immaginario e del virtuale oggi vincente. Le nuove droghe solo in percentuali basse danno dipendenza fisica, sebbene il 50% dei suoi consumatori mantenga un uso dipendente. Al di là dei rischi acuti come collasso, disidratazione, infarto e alterazione dei riflessi delle percezioni, si possono avere diminuzione del benessere generale, alterazione dei ritmi circadiani e del ciclo alimentare, alterazione dell’umore e diminuzione dell’autostima con conseguenti azioni aggressive. Sono inoltre frequenti alterazioni dei processi emozionali e della personalità. È possibile soprattutto che aumenti il numero di giovani a rischio per lo sviluppo di crisi psicotiche e di strutture psicopatologiche gravi, dalla depressione alla schizofrenia, al disturbo borderline di personalità.
La variabilità dei quadri sintomatologici prospettati per le persone affette da una doppia diagnosi, viene ulteriormente complicata dal poliabuso (ovvero dall’uso simultaneo o ciclico di sostanze diverse), dalla presenza di più dipendenze (non solo da sostanze) o di un abuso e di una dipendenza, come spesso accade in modo combinato, per droghe e alcool. I sintomi finiscono col sovrapporsi e complicarsi ulteriormente quando, per esempio, appare la presenza di più turbe della personalità -di fatto, nella norma- magari espresse a livelli di gravità differenti o magari associate a disturbi di altri assi (in particolar modo di asse I). Nella letteratura internazionale si fa sempre più strada l’evidenza che le droghe funzionino da fattore precipitante in un’ampia fascia di popolazione giovanile, maggiormente in quella detta “a rischio” per la presenza di problematiche di devianza e/o d’appartenenza a contesti sociali multiproblematici.
Le diverse droghe agiscono in modo differente sui singoli soggetti che ne fanno uso, modificando specificamente i processi psichici, sempre secondo un significato personale. Dopo l’incontro con la sostanza nulla resta più come prima: la droga dà inizialmente alla persona una risposta positiva mai reale, fissando, peggiorando e cronicizzando la patologia iniziale; successivamente si instaureranno dei meccanismi a catena in cui l’automatismo diverrà incontrollabile. L’antagonismo tra un sé senza-sostanza e un sé diverso grazie ad essa, diventa sempre più forte; la contrapposizione tra questi due stati sempre più estrema: un sé miserabile e fallimentare, con relazioni dolorose e sentimenti insopportabili, che si contrappone a un altro sé che -per quanto irreale- appare pacificato e senza malessere. Tale scissione che caratterizza in particolar modo i soggetti affetti da disturbi di personalità e contemporaneamente dipendenti da sostanze, mostra una straordinaria forza di autoreferenzialità, di persistenza, di resilienza, cioè una capacità di deformarsi elasticamente, resistendo tuttavia alle sollecitazioni anche terapeutiche dell’ambiente (v. la scarsissima compliance dei soggetti con disturbo borderline di personalità). Infatti, mentre la struttura psicopatologica si manifesta per natura, la tossicomania mostra chiusura; mentre la prima fa avanzare richieste, la soluzione tossicomanica, paga dell’effetto salvifico raggiunto grazie alla sostanza, sembra annullare ogni richiesta. È così che mentre la prima sembra permeabile al rapporto con gli altri invocando il cambiamento tramite l’aiuto altrui, la seconda si chiude rendendosi impermeabile ad ogni rapporto. L’insieme di queste due componenti è alla base delle scissioni tanto frequenti in questi soggetti e dà luogo ad una resistenza e a una forza che impediscono a differenti interlocutori di aprirsi un varco per il confronto (v. il tema dell’acting out nel caso clinico che segue). Quanto più la struttura psicopatologica appare chiusa, impermeabile e consolidata nel tempo, tanto più il suo ruolo è cruciale in una tossicomania molto grave; quanto più è cronica, tanto più questa si impone: perché la persona ha vissuto a lungo dentro quel mondo, imparandone il modo di vivere, assumendone le leggi e le abitudini, annullando le risposte personali, creandosi danni, superando remore ma soprattutto ne ha ricavato l’idea di non avere altra possibilità che continuare a fare il tossico. Anche i piani più profondi dell’identità vengono compromessi: viene lesa l’autostima, l’autoconsapevolezza, l’autonomia e l’espressività. La struttura psicopatologica, così come descritta, rappresenta un limite alla terapia, lasciando piuttosto spazio a soluzioni negative e distruttive (v. comportamenti impulsivi e a rischio nel caso clinico che segue), generando ulteriore conflittualità, confusione, chiusura ed angoscia. Una struttura tanto disfunzionale -e tanto tossica- da pretendere subito azioni o oggetti che seppur distruttivi siano in grado di risolvere all’istante ogni ansia, preoccupazione e motivo di sofferenza: il trionfo della logica tossicomanica del “tutto e subito”. Per tale ragione viene così frequentemente attivata in questi soggetti la ricerca di cose estreme, fuori dall’ordinario, che rispondono alla loro urgenza, alla tensione che crea, allo squilibrio che provoca; che rispondono, inoltre, al mancato funzionamento delle strutture normali che sono perennemente bloccate, congelate ad un livello molto profondo e probabilmente mai esplorato o esplorato solo in parte dal soggetto che ne è portatore. L’incapacità di risolvere la sofferenza determina un vissuto di fallimento, di blocco, di vuoto, di enorme disperazione, caratteristica ciclicamente ricorrente in tutti i soggetti interessati da un disturbo di personalità di questo tipo. L’individuo e il contesto in cui egli agisce, si muovono convulsivamente senza che vi sia un apprendimento e una maturazione (v. la frase ricorrente nel caso professionale che segue “non imparo mai dai miei errori”). L’insieme di sentimenti contrapposti, come la paura e il desiderio, l’odio e la benevolenza, saranno continuamente riproposti: la voglia di libertà, autonomia ed emancipazione scateneranno la fuga in un’illusione di onnipotenza; la paura di una separazione tragica, di ulteriore sofferenza, di perdite irreversibili, scatenerà un sentimento di radicale impotenza. A questa sofferenza il tossicomane conosce già la soluzione e, pur di ottenerla, è disposto a sopportare tutti i disagi che comporta l’uso della droga, di cui egli è consapevole. Al rischio dell’incerto preferisce la sicurezza dell’oggetto, la sostanza, che mai lo delude, che mai lo tradisce. Da qui il vissuto di vittima, in quanto schiacciato da qualcosa di ingovernabile, che è al di sopra del suo potere (vedi le espressioni utilizzate nella trattazione del caso clinico che segue: “la mia testa matta”, “certi momentacci”, “la furia che mi sale”). Lo stesso vittimismo che egli esprime scatena una profezia che si avvera: nulla si è fatto, perché nulla si può fare, perché già nulla prima si poteva fare (v. caso clinico: “accettatemi come sono; sono nato così e non cambierò mai”) . Ogni collusione con l’autovittimizzazione aggrava fortemente la sintomatologia del disturbo ed in questo modo le relazioni diventano sempre più disfunzionali.
La doppia diagnosi pone una serie di problemi di carattere psicopatologico e clinico. Tra questi vi è la possibile estensione del concetto di doppia diagnosi ad altre aree di comorbidità. Un filone di ricerca sempre più consolidato accomuna giustamente le tossicodipendenze ad altri comportamenti compulsivi, visti come una forma comportamentale e relazionale di dipendenza. Tra questi il gioco d’azzardo, che presenta tutte le caratteristiche della dipendenza. Molte ricerche confermano la maggiore prevalenza dei giocatori d’azzardo tra gli alcoolisti e tra i soggetti tossicodipendenti rispetto alla popolazione generale. Il gioco d’azzardo patologico, classificato tra i disturbi del controllo degli impulsi, si presenta con elevata frequenza in comorbidità con i disturbi d’ansia e i disturbi dell’umore. Varie linee di evidenza clinica e sperimentale indicano che il gioco d’azzardo patologico è associato ad un’autostimolazione periodica e ripetitiva dei sistemi endogeni della dopamina. L’abuso di sostanze tra giocatori patologici oscilla tra il 25 e il 65% ed inoltre c’è una dipendenza incrociata con altri comportamenti come l’anoressia, la bulimia e in generale tutti i comportamenti compulsivi. Un’altra di queste aree è quella della presenza contemporanea di un disturbo del comportamento alimentare e di un disturbo sindromico psichiatrico. Tutte le considerazioni psicopatologiche, diagnostiche e patofisiologiche relative alla doppia diagnosi nel caso delle sostanze si possono fare anche per quanto riguarda il consumo di alimenti