Articolo di Antonio Floriani
Oggi la terapia in caso di doppia diagnosi è ancora ad un livello relativamente primitivo, in quanto gli interventi si limitano spesso in modo specifico ad una delle due diagnosi, in modo più o meno variamente integrato. Pur esistendo molteplici proposte terapeutiche, emanazione di varie teorie e scuole di pensiero, va detto che non esiste un modello che si sia rivelato valido ed efficace per tutti i soggetti interessati da questo genere di disturbi. La netta separazione dei luoghi di cura, ovvero servizio psichiatrico e servizio per le tossicodipendenze, vissuta negli anni trascorsi, ha rallentato un approccio trattamentale integrato adeguato a questo tipo di pazienti che presentano forme acute o subacute di disturbi psichiatrici maggiori e forme di dipendenza da sostanze. È esperienza assai comune degli operatori di tali servizi veder rimbalzare o spesso inviare i pazienti da un servizio all’altro, con le logiche conseguenze per il soggetto (ahimè!). Questo modello a ping-pong che rimanda il paziente nell’altro campo, unitamente ad invane giustificazioni cliniche, conferma e consolida la sensazione dell’abbandono tipica di pazienti affetti da un disturbo di personalità, particolarmente se borderline. Il rimando tra i servizi rappresenta già in partenza una premessa al fallimento.
Il modello di condivisione e compartecipazione tra le differenti componenti terapeutiche è quello più auspicabile. Esso prevede un equipe stabile, organizzata, riconosciuta istituzionalmente e con competenze, strumenti e responsabilità definiti. Un approccio globale al paziente implica un’estrema attenzione alle esigenze fase-specifiche con cui egli si presenta, accettando tutta la sua sintomatologia, piuttosto che negandola. Necessita la costruzione di un’alleanza terapeutica basata sulla fiducia, sulla confidenzialità, sull’onestà, la chiarezza e l’impegno. Parallelamente vanno in parte accettati interventi assistenzialistici atti a stabilizzare le condizioni abitative e famigliari, sociali e mediche, non escludendo la possibilità di interventi atti alla sola riduzione dei danni. L’astinenza può e deve essere un obiettivo, ma non sempre ciò può accadere nell’immediato e comunque non per tutti i pazienti. La presa in carico va programmata sul lungo-lunghissimo periodo, organizzata per stadi evolutivi e per obiettivi intermedi progressivi. Le recidive e il rischio di drop out (ovvero di “fuga” del soggetto), situazioni tipiche e ricorrenti in questi pazienti, vanno prevenuti per mezzo di programmi specifici, costruendo preventivamente la rete sociale ed utilizzando i sussidi presenti sul territorio (ad esempio gruppi di auto aiuto, Narcotici Anonimi, Alcoolisti Anonimi, Club degli Alcoolisti in Trattamento). Quanto più l’equipe e i trattamenti sono integrati, tanto più i programmi sono specifici per questi pazienti gravi, e tanto più è possibile ottenere risultati positivi e risparmi in termini economici e sociali. Nella prospettiva multidimensionale, l’intervento viene modulato in funzione del peso relativo delle varie dimensioni psicopatologiche, della loro patofisiologia e dei possibili determinanti comuni coinvolti nella doppia diagnosi. In generale, il trattamento psicofarmacologico della doppia diagnosi si propone come un intervento atto a controllare i sintomi di quadri psicopatologici ben più gravi del solo abuso e/o dipendenza da sostanze.
La presa in carico di soggetti che si presentano ai servizi con patologie in comorbidità, ha reso possibile l’emergere delle differenze individuali e familiari, con l’importanza della storia e dell’elaborazione personale della sofferenza. Si è pertanto reso sempre più necessario curare la sofferenza non coperta e non trattata anche se non formalizzata in una sindrome psicopatologica. È esperienza comune degli operatori dei servizi, in particolar modo delle comunità terapeutiche, riscontrare come moltissimi problemi si manifestino nella fase di disintossicazione -anche da sostitutivi- così come in quella “di reinserimento”, a termine del percorso comunitario. È allora che si hanno gravi ricadute, ulteriore devianza, lo stabilirsi di nuove dipendenze, accanto o in sostituzione di quella precedente. Il recupero viene molte volte interrotto proprio dall’emergere di una sofferenza, che si presenti o meno come patologia psichiatrica, potenzialmente slatentizzatasi durante i programmi effettuati. Tutti gli interventi terapeutici, ambulatoriali e comunitari, hanno percentuali rilevanti di drop out e di fallimenti. La dipendenza in sé è caratterizzata da ripetute ricadute dell’uso di sostanze. È andato emergendo sempre più, dunque, il concetto che molti fallimenti siano imputabili ad altre problematiche, specificatamente di tipo psichiatrico, evidenziate da franche crisi psicotiche, depressive e di altro tipo. La presenza di una patologia psichiatrica in un paziente tossicodipendente, oltre ad influenzarne il trattamento, aumenta il rischio di ricaduta nell’utilizzo di sostanze.
Obiettivo primo della strategia terapeutica dovrebbe essere un reale cambiamento del meccanismo che produce il dolore del paziente. Le famiglie di questi pazienti sono generalmente testimoni di ripetuti esperimenti, spesso invocati come risolutivi da parte del soggetto disturbato, in cui fanno frequentemente la comparsa programmi terapeutici proposti da strutture pubbliche o private, dai medici curanti o da psicoterapeuti. L’intervento in Comunità Terapeutica è indicato per molti di questi soggetti, purché essa preveda un’equipe multidisciplinare adatta ad affrontare le diverse problematicità di gestione di questi pazienti.
Il ricorso a farmaci si rivolge ad entrambe le problematicità di base: metadone e buprenorfina per la dipendenza dall’eroina; psicofarmaci per attenuare la sintomatologia del disturbo. L’efficacia dei farmaci antipsicotici classici, come l’aloperidolo, sembra essere ridotta nella maggior parte di questi pazienti. Sebbene questi abbiano un effetto parzialmente positivo sulla disforia e sulla paranoia, non impedirebbero tuttavia la sintomatologia negativa e avrebbero effetti collaterali particolarmente mal tollerati dai pazienti con doppia diagnosi, particolarmente da quelli con disturbi della personalità (aumento di peso, calo della libido, caduta dei capelli, ecc.). Avrebbero addirittura effetti paradossi, motivati soprattutto da meccanismi farmacodinamici oltre che psicologici (depersonalizzazione, attacchi di panico, ecc.). Vanno pertanto preferiti i farmaci antipsicotici atipici, per la migliore tollerabilità, per i minori effetti collaterali, per l’azione di blocco dei recettori D1 correlati alla gratificazione e pertanto capaci di ridurre il craving. Il trattamento con benzodiazepine va effettuato unicamente durante le crisi acute di ansia che non rispondono ad altri trattamenti visto l’elevato rischio con cui questi pazienti ne diventano dipendenti.
Il particolare rapporto con questo tipo di pazienti fa sì che la fiducia oscilli incessantemente tra gli estremi. I giochi della logica tossicomanica, le manipolazioni e l’inattendibilità sono infatti costantemente presenti, in modo più o meno latente.
I pazienti con disturbo borderline di personalità sono quelli che mostrano i maggiori problemi di aderenza terapeutica. Tanto per gli aspetti strettamente legati alla dipendenza da sostanze (metadone, buprenorfina, revulsivanti), quanto per quelli prevalentemente indirizzati alla patologia psichica, l’intervento clinico è ulteriormente complicato dalla sintomatologia che si può presentare anche molto grave. Un aspetto che condiziona notevolmente il trattamento è la motivazione al miglioramento del paziente. La prognosi è più sfavorevole in presenza di scontri fisici, tratti antisociali, abuso massivo di alcool e droghe, tratti paranoidi. Il comportamento autolesionista (che comporta frequentemente tagli, maggiormente agli avambracci) ed i tentativi di suicidio che possono diventare ricorrenti, sono i tratti tra i più eclatanti del disturbo ma non sempre presenti. In genere questi atteggiamenti anti-conservativi potrebbero far pensare, a volte erroneamente, alla presenza di un disturbo depressivo maggiore. Lo sviluppo di dinamiche di tensione e dolore che si esprimono con irritabilità, aggressività, conflittualità ed incapacità a sopportare i limiti e gli impegni, chiusura e oppositività, nonché incapacità di stabilire e continuare le relazioni, portano presto o tardi al drop out del paziente. Il soggetto mette in atto un intervento fondamentalmente errato che riproduce e rafforza la stessa disfunzionalità che voleva, precedentemente, modificare (vedi i “repentini cambi di programma“). In particolar modo egli non vorrà mettere distanze e limiti dall’ambiente disfunzionale che lo circonda, con l’illusione ed una presunzione smisurata di poter cambiare gli altri anziché se stesso, di potersi costruire un’autonomia fondata su obiettivi esterni, su soluzioni concrete di vario ordine (trasferimenti di alloggio, di città, convivenze, matrimonio, figli, traguardi lavorativi, maggiori guadagni, conquiste sociali), più che una presa di coscienza e di distanza emotiva dalle dinamiche in gioco.
CONCLUSIONI
di Antonio Floriani
Il disagio psichico associato alla tossicodipendenza è una realtà riconosciuta da anni. In questi casi si parla di “doppia diagnosi”, ovvero coesistenza nello stesso soggetto di disordini psichiatrici e di problemi legati all’abuso di sostanze stupefacenti. La comorbidità di disturbi psichiatrici e di disturbi da uso di sostanze è una situazione comune nella popolazione generale e si traduce anche in una elevata prevalenza di casi di doppia diagnosi nei servizi psichiatrici e per le tossicodipendenze. Questi casi rappresentano purtroppo una quota rilevante di fallimenti terapeutici, perché sono pazienti che spesso vengono esclusi o rimbalzati da entrambi i tipi di servizio. Anche coloro che sono ammessi a frequentare una delle due strutture, ricevono in genere poco -in termini di trattamento- per l’altro disturbo.
La doppia diagnosi, quando diagnosticata, genera argomenti di disputa a riguardo di quale sia la diagnosi primaria e, di conseguenza, dove si collochi la competenza per la cura. Spesso sono proprio i pazienti a favorire questo atteggiamento, più o meno deliberatamente, perché tendono ad evitare o minimizzare la diagnosi del disturbo psichiatrico: per alcuni, infatti, è più accettabile essere tossicodipendenti piuttosto che essere considerati malati di mente.
I pazienti con doppia diagnosi hanno situazioni affettive, familiari, scolastiche, lavorative ed abitative instabili, comportamenti violenti, commettono reati, presentano scarsa compliance ai trattamenti, tassi di ospedalizzazione maggiori e tendenza a comportamenti suicidari. Hanno pertanto più problemi in tutti i settori della loro vita, con costi psicologici e sociali maggiori per se stessi, per le loro famiglie e la collettività. L’atteggiamento nei confronti del trattamento della doppia diagnosi sta cambiando, specialmente negli ultimi anni, sia per una maggiore consapevolezza del problema, sia per il maggior numero di ricerche condotte, con l’avviamento di nuove metodologie di trattamento integrato che comprendano sia la tossicodipendenza, sia la malattia psichiatrica propriamente detta.