I rapporti tra mente e cervello sono oramai indiscussi; per questo motivo è sempre più importante una collaborazione integrata tra scienze psichiatriche e scienze psicologiche.

Relazione terapeutica e di aiuto col paziente borderline

La relazione terapeutica col paziente borderline implica una strategia di intervento che tenga conto delle teorie dell’attaccamento.
Nel secondo anno di vita il bambino è alla ricerca di caregivers, cioè di curanti da cui ottenere aiuto e conforto: questo è l’attaccamento.
Esso dà luogo a tre stili principali:
1. sicuro
2. evitante (paziente “dismissing”, che attua la rimozione)
3. ambivalente o resistente

Quest’ultimo stile, ovvero ambivalente o resistente, è quello che caratterizza il paziente borderline.

Alcuni bambini non riescono ad organizzare in modo coerente il loro stile di richiesta di aiuto. Si tratta di quelle persone che si caratterizzano in alcune epoche della loro vita con l’immagine da “uomini veri”, quelli che non chiedono mai; sono persone che vanno dallo psicoterapeuta solo quando stanno bene ma non quando stanno male e quindi ne avrebbero realmente bisogno, per tornarci quando stanno nuovamente bene.

La disorganizzazione dell’attaccamento viene spesso definita come “pattern di attaccamento disorganizzato” (in realtà questa espressione è un ossimoro riportando nella medesima due concetti contrapposti, quello di “pattern” che richiama il concetto di organizzazione, e l’attributo “disorganizzato” che significa esattamente l’opposto).
Essa dà origine a soggetti con le seguenti caratteristiche:
– 20% di pazienti “a basso rischio” e sono generalmente quelli che non hanno in famiglia pazienti psichiatrici, e situazioni famigliari nella norma che non hanno casi in famiglia.
– 40-80% di pazienti ad alto rischio, soprattutto in quelle situazioni famigliari fortemente compromesse in cui sono presenti genitori (più spesso le madri) con disturbi bipolari e di personalità.

I paradigmi della disorganizzazione dell’attaccamento sembrano pertanto correlati tanto alle figure del caregiver, quanto al soggetto stesso. Essi sono così rappresentati:
– La disorganizzazione dell’attaccamento è spesso correlata alla presenza di lutti o traumi non elaborati dal caregiver o dalle figure che maggiormente lo rappresentano.
– Il caregiver è spaventato o incute paura al bambino durante le interazioni di attaccamento.
– La rappresentazione di sé-con-l’altro nell’attaccamento disorganizzato è drammatica, molteplice e dissociata
– Le funzioni metacognitive (reflective-self, “riflessione su di sé”) sono ostacolate; sono invece normali le funzioni che riguardano il capire bene le azioni ed i pensieri dell’altro.

Le conseguenze relazionali della disorganizzazione dell’attaccamento sono le seguenti:
– La richiesta di cura, aiuto e conforto comporta improvvise e continue oscillazioni emotive e cambiamenti bruschi nella rappresentazione di sé-con-l’altro.
– Il “triangolo drammatico” che ne deriva è l’oscillazione continua della visione/interpretazione delle figure prossime al paziente (di questo tipo, ovvero legate da vincoli affettivi e/o di dipendenza) che passano da quella di salvatore, persecutore e vittima, attuando così uno splitting, una scissione nel soggetto. Ogni volta che il soggetto affetto dal disturbo chiederà aiuto al terapeuta, saranno frequenti le oscillazioni umorali e nelle rappresentazioni positive e negative di sé e dell’altro. La percezione dualica a splitting è quindi rivolta tanto verso se stesso quanto verso gli altri; si passa così ad esempio per ciò che concerne l’autostima da una buona percezione di questa (maniacalità compresa) alla completa assenza (considerarsi delle nullità, falliti…); per ciò che riguarda gli altri ad una rappresentazione alterna e ciclica persecutore/vittima.

La psicopatologia dell’attaccamento disorganizzato è stata studiata e descritta da più autori (Dozier M., “Attachment and psycopatology in adulthood”, handbook of attachment, New York; Liotti 2000, “Predictive factor for borderline personalità disorder” Acta Psichiatrica scandinavica, 102: 282-289).

L’area che comprende il disturbo borderline e quello dissociativo, è assolutamente complessa; si tratta infatti di disturbi cronici recidivanti, difficilmente curabili, le cui cause sono determinate da traumi dell’infanzia.

La relazione terapeutica col paziente borderline implica:

– L’attivazione del sistema motivazionale dell’attaccamento durante la relazione terapeutica col paziente borderline che comporta la comparsa di rappresentazioni drammatiche, molteplici e dissociative di sé e del terapeuta.
– Questa condizione relazionale spiega la tendenza di questi pazienti all’interruzione prematura di qualsiasi trattamento psichiatrico.
– Sono pazienti difficilmente curabili perché difficilmente riescono a star dietro alla terapia. Esistono tuttavia pazienti che stanno meglio dopo qualche anno di terapia continuativa e sono quelli che riescono, infatti, a rimanere agganciati per lungo tempo alla terapia. Questi vedono comunque a tratti la vulnerabilità del terapeuta come vittima della propria supposta “malvagità”. Questi soggetti, quando si recano dal terapeuta, non sanno pertanto se stanno avvicinando una vittima, un salvatore o un persecutore.
– Se i terapeuti sono più di uno (almeno due) e collaborano tra loro, è dimostrato che i pazienti borderline riescono a restare in trattamento e migliorano.
– I pazienti borderline che riescono a rimanere in terapia, diminuiscono dell’80% i rischi di suicidio e di autolesionismo, essendo i tentativi o la minaccia di questi frequenti in questo genere di pazienti (tagli, sigarette spente addosso, …).

La collaborazione nel trattamento tra due o più terapeuti è stato dimostrato essere essenziale. Sono pertanto importanti continui scambi di vedute, anche a livello di supervisione, anche quando i terapeuti hanno ruoli differenti (terapeuta di gruppo, privato, farmacologo, …) ed è positivo che il paziente sia a conoscenza della collaborazione tra i terapeuti. I ruoli di terapeuta “primario” e “secondario” possono alternarsi.
– La presenza di due terapeuti permette una riduzione dell’attaccamento rispetto a quando è uno solo ad operare. Succede spesso, ad esempio, che quando uno dei due terapeuti va in ferie o in circostanze in cui avviene la separazione fisica da questo, che il paziente borderline vada in crisi ed interpreti pertanto questa separazione come un abbandono da parte del terapeuta, rinforzato da pensieri ossessivi del tipo: “si stancherà di me, mi lascerà anche lui”. A questo punto c’è un drop-out del paziente che si trova emotivamente molto compromesso, col conseguente disinteresse nei confronti di tutto ciò che riguarda la sua vita (interessi, lavoro, relazioni, …) e senso dell’abbandono e pensieri del tipo: “non mi sta capendo”.  Quando ci sono due terapeuti, invece, c’è sempre la possibilità di rifarsi al secondo terapeuta quando il primo non c’è o viene comunque meno.
– La presenza di due terapeuti permette il controllo del terapeuta verso cui il soggetto ha minore attaccamento, nei confronti del terapeuta in cui il rapporto di transfert e di attaccamento è maggiore e pertanto più pericoloso.
– Due terapeuti permettono un esercizio continuo delle capacità metacognitive (“due menti si occupano della mia mente”)
– La presenza di due terapeuti, maggiormente se partecipano alle supervisioni, permette il lavoro sui “limiti del terapeuta” (secondo il modello di Linehan) riducendo i rischi per il terapeuta stesso; la co-terapia permette pertanto anche la protezione dei curanti.
– La presenza di due terapeuti mostra al paziente un esempio concreto di collaborazione fra pari; se due basi insicure (due genitori che si picchiano) sono peggio di una sola normale, due basi sicure, come nel caso dei due terapeuti in clima di collaborazione e condivisione, rappresentano per il paziente un importante mezzo terapeutico.
– Le volte in cui il paziente “degenera” nelle richieste verso il terapeuta (generalmente verso quello in cui il rapporto è più compromesso), ad esempio telefonandogli a casa e lasciando dei messaggi in segreteria (talmente allarmanti che capita spesso che allorquando sia un famigliare del terapeuta ad ascoltarli si spaventi), questo porrà dei limiti, fino ad interrompere il rapporto col paziente, dandone a questo una spiegazione; è importante che il secondo terapeuta faccia presente che il primo non l’ha abbandonato ma che gli ha posto dei limiti, non perché il paziente sia “mostruoso” ma perché il terapeuta non è onnipotente e può seguirlo solo se rientra nei limiti che quello gli ha imposto. Il rapporto col terapeuta “secondario” è generalmente più utile, anche se all’apparenza sembra quello più “cattivo”, poiché esso permette di rompere il gioco di manipolazione, ricatto e minaccia del paziente nei confronti del “primario”; come nel caso, ad esempio, in cui il paziente, minacciando sempre il primo di suicidio, viene fatto ricoverare con un TSO dall’altro terapeuta.

E’ pertanto impossibile pensare di curare da soli un paziente borderline: bisogna essere sempre almeno un’equipe terapeutica composta da due figure, perché il paziente proietta le sue scissioni del mondo esterno sui terapeuti. Non importa che siano uno lo psicoterapeuta e l’altro il farmacologo; è importante il tipo di relazione, non la qualifica.

L’autore Bowlby ha studiato questi meccanismi ed il rapporto tra teoria dell’attaccamento e psicoanalisi sui delinquenti rinchiusi in un carcere di Londra nel 1944. Tutti i soggetti in esame avevano subito dei traumi o dei maltrattamenti; questo a dimostrazione che la realtà esterna “modella” il soggetto.

I modelli delle strutture terapeutiche pubbliche e private convenzionate esistenti, sono soprattutto organizzate per il trattamento di pazienti psicotici; pochissimo esiste per il paziente borderline proprio perché sono i più difficili da trattare nel rapporto medico-paziente e per la difficoltà di tenerli “agganciati” nella relazione terapeutica per lunghi periodi.

Relazione tra soggetto borderline e tossicodipendenza.

È evidente una relazione tra paziente borderline e tossicodipendenza. Lo studio del rapporto adolescenti, tossicodipendenza e pazienti borderline, evidenzia l’aumentato rischio di comorbidità/doppia diagnosi in alcuni soggetti “predisposti”.  Il concetto di dipendenza è collegato a diverse personalità:
– Psicotica
– Borderline
– Narcisistica

Ciò comporta un approccio multidisciplinare verso il tossicodipendente in cui saranno da considerare dinamiche biologiche, ambientali, sociali, psichiche (psicologiche e psichiatriche). La realtà sociale mette in evidenza più facilmente il soggetto borderline dal momento che prevalgono la scissione e l’evitamento rispetto alla rimozione ed alla negazione, come invece avveniva nei pazienti classicamente seguiti in passato.

Il ruolo della famiglia rimane sempre centrale nella ricerca del piacere (ad esempio la mancanza della figura della madre). La fuga da ogni conflittualità provoca spesso disturbi del comportamento; stretta è inoltre la correlazione tra disturbi famigliari e tossicomania. Una qualsiasi struttura mentale può portare ad una condotta dipendente, ivi compresa la tossicodipendenza, in maniera latente o manifesta, in relazione ai conflitti famigliari; ciò accade dove maggiormente c’è un fallimento dell’attaccamento verso le figure genitoriali durante l’infanzia. Un distacco non rielaborato da persone o cose, porta ad un attaccamento dipendente da figure che danno sicurezza, con modalità relazionali non equilibrate. Si ha pertanto una massiccia dipendenza da uno “pseudo-oggetto” rappresentato dall’uso di alcol, droghe, psicofarmaci, cibo. L’uso massiccio di alcol in adolescenza è stato dimostrato essere correlato con la mancanza affettiva e di fattori protettivi descritti come “attaccamento insicuro”. Oggi, tra gli adolescenti, è in aumento la presenza dei cosiddetti “tossicodipendenti minori” vale a dire che usano cannabis, LSD, MDMA, alcol e, più recentemente, cocaina in maniera “socialmente accettata” dal gruppo a cui appartengono. C’è una forte sottovalutazione delle sostanze che provocano, maggiormente in soggetti predisposti, gravi danni, anche in persone che non hanno evidenti personalità tossicomaniche, e che possono comunque manifestarsi solo come crisi adolescenziali transitorie e pertanto concludersi. È inoltre da tenere presente che nello stesso periodo della vita il rapporto col proprio corpo, con la propria fisicità, è critico e spesso vissuto in modo molto negativo; quando ciò accade il proprio corpo assume una valenza negativa e pertanto risulta essere malcurato o addirittura maltrattato e punito. La possibilità di cambiamento esiste, soprattutto quando l’ambiente è adeguato, in grado di accogliere il bisogno del paziente, di modificarne gli agiti, così come di attuare la soppressione dell’uso di sostanze.

Sviluppo e costruzione della personalità nel soggetto borderline.

Nello sviluppo e nella costruzione della personalità è importante considerare il concetto di sicurezza. A determinarlo è il rapporto avuto nell’infanzia con i genitori (maggiormente con la madre) o con i caregiver. Se si è instaurato un rapporto di fiducia, il bambino non piange anche se la madre si allontana temporaneamente da esso per andare in un’altra stanza. Stessa reazione la si ha con il cibo che rappresenta il calore; così pure avviene col caregiver: la mancanza di sicurezza in questa relazione porta ad un deficit anche di tipo cognitivo e psicomotorio (ricerche sugli orfanotrofi di Bowlby).

Il concetto di transfert e controtransfert deriva proprio dai concetti sopra esposti. L’attaccamento è evidente anche quando la figura con cui questo avviene non è quella genitoriale ma dà comunque sicurezza; è quindi, pertanto, il terapeuta quando questo rappresenta sicurezza.
In soggetti borderline sono state studiate le prime esperienze ed i loro affetti nei confronti dei genitori per mezzo di questionari ed interviste semi-cliniche. Questo strumento ha permesso di analizzare non tanto la risposta del paziente, quanto la modalità con la quale il soggetto si poneva (Adult Attachment Interview – AAI di Mary Main). Tale lavoro comporta una forte capacità introspettiva, che permetta, ad esempio, la distinzione tra apparenza e realtà. A differenza del test di Rorschach, qui ci sono domande ben specifiche su genitori, sé stessi e i figli; può pertanto suscitare risposte emotive intense che permettono di capire quel tipo di attaccamento sta dietro ad una persona.

Il deficit di regolazione delle pulsioni e delle emozioni, estremamente rappresentato in questi soggetti, è qualcosa di “disorganizzante”. Se ci sono più figure di attaccamento (padre, madre, nonni, zii…) c’è una gerarchia di priorità d’attaccamento, per cui un borderline cerca dapprima una delle figure che lui vede migliori, poi, in conseguenza, le altre.

L’incapacità da parte dei soggetti borderline di rielaborare nella vita eventi personali traumatici (catastrofici e non) li porta, a differenza delle altre persone che vi riescono, ad non uscire da queste situazioni ed essere pertanto persone comunque insicure.

 


(Articolo a cura di Antonio Floriani; relazione del seminario della Società Italiana di Psichiatria, Sezione Ligure, tenutosi a Genova il 18.10.2002, Ospedale S. Martino, Auditorium CBA, dal titolo. “Teorie dell’attaccamento e interventi psichiatrici oggi”. Relazione di Giovanni Liotti).